La terapia senolitica
agisce su un nuovo meccanismo della malattia di Alzheimer
DIANE RICHMOND & GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 13
aprile 2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La malattia di Alzheimer è la più grave patologia neurodegenerativa
del cervello umano e la principale causa di demenza dell’anziano per la quale,
nonostante i progressi degli ultimi decenni nella conoscenza dei meccanismi
patogenetici, non si dispone ancora di terapie in grado di modificarne il
decorso inesorabile. Anche le strategie terapeutiche più promettenti, con i
migliori risultati sui modelli sperimentali, alla verifica clinica si sono
rivelate deludenti. Non riuscendo ad arrestare la progressione dei processi
degenerativi, si è cercato di agire sullo stato fisiologico delle parti ancora
indenni del cervello, per migliorare le prestazioni cognitive, incluse quelle
dipendenti dalla working memory, e
tentare di conservare il più a lungo possibile i processi di integrazione alla
base dell’Io. Ma, anche i quattro farmaci specificamente approvati per
combattere i deficit cognitivi, non vanno oltre il beneficio temporaneo di
effetti di miglioramento delle prestazioni nelle fasi non avanzate della
neurodegenerazione.
Lo studio della fisiopatologia della
malattia di Alzheimer, sebbene non abbia rivelato negli ultimi anni elementi tali
da modificare sostanzialmente il quadro noto dei processi patogenetici
fondamentali, continua ad aggiungere aspetti che si spera possano consentire
l’introduzione di nuove strategie terapeutiche con un significativo
miglioramento della prognosi. In particolare, gli sviluppi dell’analisi delle
placche neuritiche o amiloidi, uno dei due contrassegni istopatologici della
malattia individuati da Alois Alzheimer, hanno portato alla scoperta di caratteristiche
non rilevate in precedenza delle cellule progenitrici dell’oligodendroglia
(OPC, da oligodendrocyte progenitor cell)
presenti nelle placche; tali caratteri hanno suggerito l’impiego di farmaci senolitici.
Un nuovo studio, condotto da Peisu
Zhang e numerosi colleghi coordinati da Mark Mattson, ha identificato nelle
cellule OPC delle placche neuritiche un fenotipo simil-senescente e ha
sperimentato una terapia senolitica, ottenendo la selettiva rimozione delle
cellule progenitrici alterate.
(Zhang P., et al. Senolytic therapy
alleviates Aβ-associated oligodendrocyte progenitor cell senescence and
cognitive deficits in an Alzheimer’s disease model. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-019-0372-9,
2019).
La provenienza degli autori è la seguente: Laboratory
of Neurosciences, National Institute on Aging Intramural Research Program, NIH,
Baltimore, MD (USA); Laboratory of Genetics and Genomics, National Institute on
Aging Intramural Research Program, NIH, Baltimore, MD (USA); Laboratory of
Clinical Investigation, National Institute on Aging Intramural Research
Program, NIH, Baltimore, MD (USA); Laboratory of Molecular Gerontology,
National Institute on Aging Intramural Research Program, NIH, Baltimore, MD (USA);
Electron Microscopy Core, National Institute on Drug Abuse Intramural Research
Program, NIH, Baltimore, MD (USA); Immunology Program, Department of Medicine,
Johns Hopkins University School of Medicine, Baltimore, MD (USA); Department of
Neuroscience, Johns Hopkins University School of Medicine, Baltimore, MD (USA).
Per consentire di inquadrare lo
studio qui recensito nell’ambito più generale delle indagini sperimentali
condotte in questo campo, si propongono alcuni riferimenti allo stato delle
conoscenze sulla patologia della demenza neurodegenerativa.
Ricordiamo che, anche solo
limitandoci agli studi sulla genesi dell’amiloide, la mole del lavoro svolto è
impressionante; la nostra società scientifica ha seguito gli sviluppi di questa
ricerca, riuscendo a presentare attraverso recensioni pubblicate su questo sito
solo una parte degli studi più significativi. Quale esempio, si propone qui di
seguito un estratto di un articolo del 2015.
“La
APP (amyloid precursor protein),
una proteina transmembrana tipo I
codificata da un gene del cromosoma 21 ed esistente in varie isoforme, è abbondante nel sistema nervoso e concentrata
nei neuroni centrali, dove per trasporto anterogrado lungo gli assoni raggiunge
i terminali sinaptici. Da alcuni decenni, per la sua centralità nella patologia
molecolare della malattia di Alzheimer, è un oggetto di studio privilegiato in
ricerche che vanno dall’ambito genetico, che ha identificato mutazioni di APP
all’origine di forme familiari della demenza neurodegenerativa, a quello
biochimico e biologico molecolare, che hanno identificato possibili meccanismi
nella patogenesi del danno.
Le
placche amiloidi, che insieme con la degenerazione neurofibrillare[1] intracellulare costituiscono il
contrassegno morfologico della malattia descritto dallo stesso Alois Alzheimer,
si formano per deposizione di peptidi β-amiloidi e sono costituite, oltre
che dal materiale amiloide, da neuriti dilatati e frammentati, da detriti
neuronici, da microglia ed altre cellule gliali e
infiammatorie. A lungo, due teorie eziopatogenetiche si sono contrapposte: la
prima considerava quale primum movens
l’accumulo extracellulare di amiloide derivata dai peptidi amiloidogenici
(Selkoe), la seconda ipotizzava un inizio
endocellulare a partire da alterazioni della proteina tau (Tanzi). Il procedere
degli studi ha poi fornito la dimostrazione sperimentale della possibilità di
induzione della degenerazione neurofibrillare intraneuronica da parte di peptidi β-amiloidi.
Attualmente
esiste una discreta conoscenza, come vedremo in sintesi più avanti[2], delle tappe biochimiche
necessarie alla formazione dei peptidi amiloidogenici
e una notevole mole di dati sui probabili meccanismi tossici. Ormai è una
nozione consolidata che il taglio molecolare operato sull’APP da β-secretasi e γ-secretasi
genera peptidi Aβ1-40, 42 e 11-40, 42, i quali si accumulano
prevalentemente negli spazi extracellulari del neuropilo
della neocorteccia e dell’ippocampo. Ogni riflessione sulla patogenesi
molecolare dei sintomi cognitivi si è basata su questo principale riferimento,
soprattutto per le fasi precedenti la massiccia perdita apoptotica
e necrotica di neuroni proencefalici.
Ora,
un ampio team ha studiato un nuovo
frammento dell’APP dimostrandone anche la potenzialità psicotossica. La scorsa
settimana ne abbiamo dato notizia nelle “Notule” con queste parole: “Willem e
numerosi colleghi, provenienti da 14 diversi istituti scientifici, in uno
studio pubblicato su Nature
dichiarano di aver identificato i frammenti CTF-η dai quali derivano i
peptidi Aη, e riportano di aver verificato la
capacità dei prodotti di scissione dell’APP secondo la via della η-secretasi
di inibire l’attività neuronica dell’ippocampo.”[3]. Prima di esporre in breve i
contenuti di questo studio, si fa presente che lo scorso 27 di ottobre, in
un’anteprima elettronica precedente la pubblicazione a stampa, due ricercatori,
l’uno proveniente dall’Università Nazionale di Singapore, l’altro
dall’Università della California a San Diego, Tyan e Koo,
hanno annunciato la scoperta del nuovo frammento, affermando che “una scissione
mai descritta in precedenza dell’APP (amyloid precursor protein) da parte della η-secretasi, seguita
dall’intervento di α- o β-secretasi,
rilascia un nuovo frammento proteolitico, battezzato Aη, in grado di causare
danno sinaptico”[4].
In ogni caso,
anche se la via biochimica che porta alla formazione di Aη non si rivelerà in grado
di gettare luce sui meccanismi di molti disturbi, come suggerito da Tyan e Koo, e anche se questo nuovo frammento peptidico non
modificasse sostanzialmente il quadro della patologia molecolare della malattia
di Alzheimer, la sua esistenza e la potenzialità neurotossica non potranno
essere ignorate dalla ricerca”[5].
L’esempio del frammento proteolitico
Aη ci sembra emblematico delle nuove acquisizioni che accrescono le
conoscenze, ma non forniscono elementi decisivi per l’individuazione di terapie
modificanti il decorso della malattia.
Un'altra pista seguita da numerosi
ricercatori è quella del danno mitocondriale. L’accumulo dei mitocondri
danneggiati è un contrassegno del processo di invecchiamento e della
neurodegenerazione che si sviluppa nella malattia di Alzheimer. Un numero
considerevole di progetti di ricerca indaga i meccanismi molecolari dell’alterazione
dell’omeostasi mitocondriale. Evandro F. Fang e
colleghi hanno studiato la mitofagia, dimostrando che
è alterata nei neuroni dell’ippocampo di pazienti affetti da malattia di
Alzheimer, in cellule staminali pluripotenti indotte derivate da persone
affette, e in modelli sperimentali della demenza neurodegenerativa. Secondo
questi ricercatori, la mancata rimozione dei mitocondri alterati è un evento
trainante la patogenesi della malattia di Alzheimer e la mitofagia
potrebbe avere effetto terapeutico[6].
Non si contano i lavori condotti
nell’ambito del ruolo dello stress
ossidativo: sull’inibizione di questi meccanismi si baserebbe l’effetto dei
raggi X[7].
Ritorniamo allo studio qui
recensito.
Dunque, nelle placche neuritiche,
dense di aggregati extracellulari di peptidi βA, vi sono neuriti
degeneranti o frammentati che accumulano autolisosomi. Zhang e colleghi, nel
cervello di pazienti affetti da neurodegenerazione alzheimeriana
e in modelli sperimentali murini di malattia di Alzheimer, hanno trovato OPC
associate alle placche Aβ, esprimenti Olig2 e NG2, che presentavano un
fenotipo simil-senescente, caratterizzato da
un’accresciuta espressione delle proteine p21/CDKN1A, p16/INK4/CDKN2A, e
dall’attività della β-galattosidasi associata
alla senescenza. Tali caratteri dell’invecchiamento cellulare non erano
presenti negli astrociti, negli oligodendrociti e nella microglia.
L’analisi molecolare dell’ambiente
delle placche Aβ ha rivelato elevati livelli di trascritti codificanti
proteine implicate nella funzione delle OPC, nella senescenza replicativa e
nell’infiammazione. Gli esperimenti di esposizione delle cellule progenitrici
degli oligodendrociti in coltura a peptidi Aβ in aggregazione, hanno fatto
rilevare un diretto innesco dei processi di invecchiamento cellulare.
A questo punto, Peisu
Zhang, Mark Mattson e i loro colleghi hanno
sperimentato una terapia senolitica delle placche neuritiche in modelli murini
di malattia di Alzheimer, per verificare gli effetti e l’eventuale efficacia. Il
risultato è apparso più che lusinghiero: il trattamento rimuoveva
selettivamente le cellule senescenti dall’ambiente delle placche, riduceva
significativamente la neuroinfiammazione, alleggeriva
il carico di Aβ e, come hanno dimostrato le valutazioni comportamentali,
determinava un apprezzabile miglioramento dei deficit cognitivi che
caratterizzano il fenotipo dei topi portatori del genotipo sperimentale alzheimeriano.
I risultati emersi da questo studio
suggeriscono un importante ruolo svolto nella neuroinfiammazione
e nella genesi dei difetti cognitivi dalla senescenza delle OPC, indotta dagli
aggregati β-amiloidi, e una potenziale prospettiva terapeutica nei
trattamenti senolitici.
Gli autori della nota ringraziano
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione
della bozza e invitano alla
lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Diane Richmond & Giovanni Rossi
BM&L-13 aprile 2019
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BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
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scientifica e culturale non-profit.
[1] Le neurofibrillary tangles, ossia grovigli fibrillari che si formano per degenerazione delle strutture portanti dell’assone, sono composte da aggregati di filamenti appaiati ad elica derivati da agglomerati in beta-configurazione della proteina tau.
[2] Si veda in Note e Notizie 14-11-15 Un probabile nuovo meccanismo nella malattia di Alzheimer.
[3]
V. Inibizione di neuroni dell’ippocampo
da parte del frammento Aη dell’APP scoperto di recente (Note
e Notizie 07-11-15 Notule).
[4] V. Scoperto
un nuovo frammento di APP con un probabile ruolo nella malattia di Alzheimer (Note
e Notizie 07-11-15 Notule). Cfr. Tyan S. H. et al., Cell Res. – Epub ahead of print 10.1038/cr.2015.125, Oct. 27, 2015.
[5] Note e Notizie 14-11-15 Un probabile nuovo meccanismo nella malattia di Alzheimer.
[6] Note e Notizie 16-02-19 La mitofagia inibisce amiloide e tau e cura il difetto cognitivo alzheimeriano.
[7] Note e Notizie 06-04-19 Perché i raggi X possono essere terapeutici nella malattia di Alzheimer.